No del governo cinese al mining di bitcoin

Rischi finanziari e preoccupazioni ambientali alla base della dura decisione del governo cinese


Il più alto organo governativo cinese ha chiesto, per la prima volta, un esplicito giro di vite sul mining e trading di criptovalute, causando una ulteriore caduta del prezzo del bitcoin in una settimana di crolli.

Il Comitato per la stabilità finanziaria e lo sviluppo del Consiglio di Stato ha rilasciato una dichiarazione che include il mining e il trading di bitcoin in una lista di rischi finanziari da prevenire. Il comitato, presieduto dal vice premier Liu He, è stato formato nel 2017 per coordinare i principali enti regolatori finanziari del paese.

Questa è la prima volta che il massimo livello di governo cinese ha espresso pubblicamente la sua opinione sulle attività di mining, mentre il trading di criptovalute era stato vietato dal 2017.

A marzo, un governo provinciale si è mosso per bloccare i data center di criptovalute per motivi ambientali, e questa settimana ha chiesto al pubblico di segnalare le strutture di mining illegali.

All’inizio di questa settimana, tre associazioni che rappresentano le banche cinesi e altre istituzioni finanziarie hanno rilasciato una dichiarazione congiunta giurando di astenersi da qualsiasi attività di “valuta virtuale”.

Il governo cinese non è preoccupato solo dei rischi finanziari, ma anche dell’impatto ambientale del mining, e del danno che i consumi di energia per questa attività fanno agli obiettivi ecologici che si è posta la Cina: raggiungere il picco di emissioni di CO2 nel 2030 e diventare carbon neutral nel 2060.

Il consumo annuale di energia del mining in Cina dovrebbe raggiungere il picco nel 2024, con circa 297 terawatt-ora, più o meno equivalente a tutta l’energia elettrica utilizzata in Italia nel 2016.

Le emissioni annuali di CO2, provocate dal mining, potrebbero raggiungere il picco di 130 milioni di tonnellate nel 2024, cioè più delle emissioni di gas serra della Repubblica Ceca nel 2016.

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